Sanpierota

Storia della Sanpierotta


La nascita di questa barca tradizionale si perde nella quotidianità della pesca lagunare praticata dai pescatori di San Pietro in Volta,  località nell’isola di Pellestrina da cui ha origine il suo nome.  Conosciuta anche come “sandolo di San Piero” è di forma lanceolata con i fianchi dritti.  Le sue misure originali sono di circa 7 metri e veniva costruita in larice o rovere.

Mentre altri tipi di barche lagunari  sono da tempo in via di estinzione,  la sanpierota ha continuato ad essere presente a Venezia come barca da lavoro e per piccoli trasporti,  integrandosi nella vita quotidiana dei Veneziani,  dando alle famiglie la possibilità di muoversi per la città e per la laguna.  Robusta, sicura e spaziosa,  può essere anche attrezzata con una o due vele al terzo;  è poco adatta ad essere portata con un remo solo,  ma si presta alla voga “alla valesana” con due remi.

Oggi troviamo tantissime Sanpierote presenti nei circoli velici,  che attrezzate con vela al terzo,  partecipano a numerose regate.


La vita con la Sanpierota.

Tratto da: Rita Vianello,  Pescatori di Pellestrina,  la cultura della pesca nell’isola veneziana,  Cierre Edizioni/Canova,  2004.



Prima della diffusione e del conseguente utilizzo dei motori nelle piccole imbarcazioni da pesca (all’incirca attorno agli anni ’60),  la sanpierota era dotata di remi e di un albero portante una vela al terzo che veniva montato qualora si presentavano le condizioni di vento favorevoli.  Tra gli anziani pescatori dell’isola di Pellestrina da me intervistati nel corso della mia ricerca sulle loro abitudini di vita,  vi era la pittoresca tradizione di tingere queste vele con vivaci colori tramite l’utilizzo di terre naturali diluite con acqua.  Lo scopo di tale trattamento era di conservare integra il più a lungo possibile quella che all’epoca era un accessorio assai costoso per dei pescatori che vivevano spesso poveramente.  La scelta dei colori e dei particolari disegni rappresentati non era mai casuale,  in quanto ogni famiglia possedeva una propria combinazione o simbolo distintivo,  spesso corrispondente al proprio soprannome,  che permetteva alle famiglie isolane di identificare da riva qualsiasi barca.  Ecco così che troviamo dipinte sulle vele stelle,  topolini,  polente e quanto altro la fantasia suggeriva,  assieme a triangoli,  fasce,  righe alternate di tinte contrastanti come per esempio il giallo con il rosso o ancora il rosso con il verde o il blu.

La vita a bordo di queste piccole barche a fondo piatto,  tipiche della nostra laguna,  non era facile per i pescatori di quegli anni.  Si usciva con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora del giorno o della notte se solo si presentavano le condizioni favorevoli (per esempio la fase di marea e la stagione) per lo svolgimento di una particolare pesca.  Succedeva nella bella stagione,  quando la laguna abbonda di pesce,  di doversi fermare lontano da casa per molti giorni e così la saggezza e la creatività popolari svilupparono vari accorgimenti per rendere questa permanenza prolungata,  spesso di più uomini nello spazio ristretto di una piccola barca,  più confortevole possibile.  Per ripararsi dalla pioggia e dal cocente sole estivo tutte le barche montavano quello che i pescatori pellestrinotti chiamano tiòme;  era questo un riparo tipico costituito da stuoie di canna,  di solito due erano sufficienti per una sanpierota,  al di sopra delle quali veniva stesa una grande tela imbevuta di olio di lino per renderla impermeabile.

Naturalmente anche i pasti dovevano essere preparati e consumati in barca.  E i pescatori di Pellestrina non disdegnando il buon cibo,  affidavano la preparazione del pranzo al membro più anziano dell’equipaggio perché ritenevano fosse più esperto e quindi più bravo a cucinare.  Per mangiare non si rispettavano degli orari fissi come quando si era a terra,  ma si sceglieva uno dei tempi morti lasciati liberi dal lavoro che permetteva,  qualche volta,  anche un piccolo ritemprante riposo,  dato che era normale pescare di notte.  Per poter cucinare a bordo di barche di legno,  senza correre il pericolo di scatenare incendi,  si caricava a bordo la fughèra.  Era questa una cassetta di legno di circa mezzo metro di lato,  rivestita internamente in latta e riempita in parte di sabbia,  sopra la quale si accendeva in tutta sicurezza un fuoco di legna. E sulle braci di questo improvvisato focolare si poneva l’immancabile griglia su cui si arrostiva il pesce,  che veniva prelevato da quello appena pescato,  ma sempre tra le qualità meno costose in modo da non intaccare gli scarsi guadagni.  In un tipico pasto di pescatori consumato in barca,  accanto al pesce non mancava della farina per preparare la polenta,  qualche verdura,  del caffè,  dell’olio per i condimenti e un po’ di zucchero.  Dell’acquisto dei rifornimenti ci si occupava quando ci si recava a terra per andare al mercato ittico.  Ma se la pesca o la vendita erano andate male,  ci si rivolgeva ai contadini dell’entroterra lagunare con cui si poteva scambiare il pesce con uova,  frutta,  verdura e farina.

Per problemi di spazio a bordo le sole posate permesse erano un bicchiere,  un cucchiaio e un piatto a testa che venivano poi lavati con acqua di mare e candeggina (il sapone non si usava perché con l’acqua salata non fa schiuma). Quando poi si cucinava la polenta,  per non sovraccaricare la barca con troppe stoviglie,  si usava ingegnosamente sfilare il timone per adagiarci sopra la pietanza fumante come fosse un grande piatto da portata.  Il vino invece,  tanto amato a terra nel caldo ritrovo dell’osteria,  si preferiva non includerlo nella mésa,  così si chiamavano in dialetto le provviste di bordo,  mentre non mancava mai un barile di preziosa acqua dolce.  Accadeva però,  talvolta,  che proprio al vino il pescatore si rivolgesse per trovare un conforto durante le lunghe veglie in barca,  nelle notti fredde e tempestose.

Quando un pescatore praticava un tipo di pesca che permetteva il ritorno a casa giornaliero,  si portava da casa il fagòto.  Era questo il nome che sì dava ad un tovagliolo con i quattro angoli annodati tra loro al cui interno,  adagiati su un piatto,  trovavano posto la onnipresente fetta di polenta con qualche piccolo pesce fritto e un po’ di seppie seccate al sole (preparazione tipica dell’isola) o sardine sotto sale.  I  pescatori più poveri dovevano limitarsi invece alla sola fetta di polenta fredda che,  alle volte,  tenevano infilata dentro il polsino della manica in modo da poterla mangiare più o meno agevolmente mentre vogavano ed evitando così di rubare anche un solo prezioso minuto alla pesca,  la sola fonte di sostentamento per sé e per la famiglia.

Questi sono alcuni dei preziosi ricordi conservati nella memoria degli anziani pescatori isolani,  la cui attività di pesca ha connotato la vita sociale ed economica dell’intera comunità.  Era questo un mondo fatto di lavoro,  fatiche, paure e pericoli ma anche di gioia,  sentimenti,  emozioni.  Ma le profonde trasformazioni della modernità con i loro rapidi mutamenti socioculturali non hanno risparmiato neanche le piccole isole della laguna di Venezia e hanno determinato l’abbandono delle tradizioni condannandole all’oblio.  Questo è stato lo stimolo alla nascita di una ricerca che raccogliesse dalla viva voce dei pescatori più anziani la cultura tradizionale dell’isola di Pellestrina,  prima che lo scorrere del tempo non lo rendesse più possibile.


Modello scala 1:30 - 18/11/2015